Rilessi attentamente le frasi che avevo appena scritto e tornai a osservare il tagliacarte che dovevo descrivere. La lama era leggermente più lunga dell’impugnatura, leggermente rigonfia al centro, ben appuntita e affilata, ma non come lo sarebbe un coltello. L’impugnatura era di forma trapezoidale, più larga verso il centro, dove poi continuava a forma di lama, mentre si snelliva verso la fine. Vi erano infine incise due righe trasversali all’impugnatura, che si potevano vedere tenendo la punta della lama verso il basso. Tra le due linee, distanti tra loro circa cinque millimetri, vi erano incise, a distanza regolare e equidistante, otto colonnette uguali. Mi ricordava un tempio greco, con le colonne distese armonicamente tra terra e cielo, o se si vuole, tra le fondamenta e il tetto. Mancava l’accenno ai capitelli. Il tetto triangolare era la fine dell’impugnatura ed era come un tempio spogliato da tutti gli abbellimenti inutili. La bellezza di quel tagliacarte veniva dalla semplicità e dalla chiarezza di linee; il contenuto che spiegava la forma e la forma che ne dettava il contenuto. Il materiale, una lega di acciaio inossidabile con una velatura argentea, ne esprimeva l’immortalità e indipendenza dal passare delle mode. Era un oggetto da tramandare alle generazioni future, capace di richiamare alla memoria la vita passa dei propri avi. Anche la dicitura incisa sull’impugnatura ne rivelava le aspirazioni aristocratiche: “DES. (Designato) REG. (Regata, Regime) DES. PAT. (forse Patentato)”. Avrei dovuto chiedere chiarimenti sul significato di tale dicitura. Continuai a scrivere riempiendo i fogli che avevo davanti, e ottenni il lavoro per cui avevo fatto domanda.

 

 
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